Risonanze su iniziative nel territorio locale

Bari | 01 Giu 2019

In data 30 aprile si è tenuto il quarto incontro del ciclo “Martedì della conoscenza” organizzato dai Missionari Comboniani di Bari dal titolo “Appunti di Diritto Migratorio: Protezione, Accesso, Limiti” nel quale Uljana Gazidede, avvocato del Foro di Bari, ha tratteggiato le problematicità legali esistenti nella disciplina del diritto migratorio.
Una materia che vede, oggi, molti settori devoluti alla competenza legislativa dell’Unione Europea nell’ottica di realizzazione di una politica immigratoria comunitaria nell’equo trattamento dei cittadini dei paesi terzi regolarmente soggiornanti negli Stati membri (art. 79 TFUE) a cui questi devono, quindi, conformarsi, residuando la loro potestà solo negli ambiti specificamente previsti dai Trattati.
Tuttavia, tale normativa soffre, ancora, di un’applicazione frammentaria e farraginosa a livello governativo nazionale che genera un iter complesso e poco trasparente pregiudicante l’accertamento della regolarità degli ingressi e, di conseguenza, il rilascio dei permessi di soggiorno o di una qualche forma di protezione giuridica in favore degli immigrati.
L’avv. Gazidede, originaria di Durazzo, rappresenta una fetta di storia dell’immigrazione albanese in terra di Bari che ha provato sulla propria pelle cosa significa scappare dal proprio Paese per ragioni forzate, dover essere ammessi da uno Stato e doversi inserire in contesti diversi da quelli di appartenenza: circostanze che hanno alimentato in lei il desiderio di accompagnare la popolazione albanese e chi non è comunitario sulla strada diretta al riconoscimento di quei diritti che dovrebbero esserlo per natura, come il semplice fatto di “essere”, “stare” su una parte di Terra, di migrare, per l’appunto: diritto che, invece, risulta essere, da sempre, una prerogativa di una sola fetta di mondo e una negazione per la restante parte.
A seguito di uno studio condotto con l’obiettivo di conoscere la percentuale delle nazionalità straniere presenti sul territorio pugliese e le loro condizioni di vita, la relatrice racconta di aver constatato che un alto numero di persone non comunitarie erano sprovviste di un titolo di soggiorno, finché si imbatte in un ragazzo con un provvedimento di rifiuto della cosiddetta emersione, ossia una sorta di procedura giuridico amministrativa di regolarizzazione del proprio status. L’emersione più importante è stata quella prevista dalla Bossi-Fini del 2002 che accordava la sanatoria con il rilascio dei permessi previa autodichiarazione ma che, di fatto, si risolse in un mero risanamento delle casse erariali, considerati l’alto numero di esiti negativi e il contributo di € 1000 richiesto per la presentazione della domanda: l’avvocato precisa che solo la prefettura di Bari ebbe 33.000 domande!
Da qui scaturisce l’interrogativo spontaneo sulla motivazione di quegli esiti e il motore della sua azione forense.
La risposta sembra risedere non tanto nel difetto di normative quanto nella contraddizione tra disposizioni giuridiche e tra esse e pratiche burocratiche.
Sebbene esistano previsioni di garanzia esse vengono disattese o svuotate di significato da un meccanismo amministrativo intricato, pieno di cavilli burocratici capaci solo di generare, a catena, vizi giuridici impeditivi l’emissione di un titolo di soggiorno o il ricorso alla procedura di regolarizzazione o lo stesso accesso alla giustizia da parte degli immigrati. Il tutto alimentato da un establishment italiano costellato da politiche, giudizi, contegni orientati a limitare l’inserimento straniero perché interessato a tutelare nazionalità e confini piuttosto che le persone.
Questo lo si percepisce già dall’attribuzione della gestione delle operazioni di cosiddetta prima accoglienza, dei flussi d’ingresso, alla competenza della Questura, come fosse questione di pubblica sicurezza. Oppure dalla illogica esistenza del reato di clandestinità tutto italiano, una fattispecie incriminatrice subdola, a doppia condotta, che punisce sia l’ingresso non autorizzato sia la permanenza e da cui non puoi uscire impunito salvo la configurazione di casi derogatori specificamente previsti, che ovviamente vanno accertati con tutta la difficoltà dell’assistenza in tali procedure.
Le anomalie fioccano a partire dalle verifiche di rito delle condizioni per il rilascio dei permessi che, nella realtà, sono poco garantiste perché non vengono eseguite a misura di migrante: l’avv. Gazidede riporta come, per esempio, le cosiddette interviste, previste, in teoria, per conoscere provenienza, dati anagrafici e storia di chi giunge nel nostro Paese, vengono effettuate in modo repentino, riducendosi, spesso, a una mera compilazione di modelli prestampati, senza l’ausilio di un mediatore interculturale, un interprete o un soggetto capace di comprendere la portata dell’atto amministrativo e spiegarla al destinatario che, il più delle volte, teme di rilasciare generalità o apporre firme perché non comprende ciò che pone in essere.
La materiale redazione del decreto, poi, non avviene per mano dello stesso Questore ma delegata a degli agenti. Logicamente, tutto ciò comporta l’aumento del rischio di errori, con l’attribuzione di generalità sbagliate o anche alias – vietato dal nostro ordinamento – o della maggiore età a ragazzi palesemente minorenni: sostanzialmente gli atti nascono da subito con una patologia giuridica che, di sovente, nemmeno sono comunicati ai destinatari, vuoi per svista vuoi per l’irraggiungibilità dell’indirizzato a causa di quegli errori. Tali alterazioni hanno rappresentato, a loro volta, le ragioni più ricorrenti che hanno giustificato il rigetto della domanda di emersione perché risultava la dichiarazione di dati personali falsi.
Altra assurdità di sistema affiora nel prosieguo del procedimento decisorio sul provvedimento di diniego e respingimento: entro le 48 ore dall’intervista, il decreto deve essere convalidato dal Giudice, nello specifico il Giudice di Pace, che è il soggetto giurisdizionale individuato per legge come competente a trattare tale materia ma che, in realtà, non è quello più adatto perché sono giudici non togati “reclutati” in base a una graduatoria formata sulla mera candidatura da parte di giuristi – spesso “solo” o nemmeno avvocati – i quali non hanno e non possono avere, sempre, una cognizione così tecnica e settoriale che già difetta tra i magistrati delle giurisdizioni superiori in possesso del titolo. Chiaramente, questo assetto è fonte di ulteriori effetti pregiudizievoli per i migranti giacché si presta ad una trattazione e a una decisione superficiali ed i Giudici, come riferisce l’avv. Gazidede, vengono finanche con l’idea di dover semplicemente ratificare, nonostante la presenza di palesi violazioni di legge.
E ciò è ancora più irragionevole e inumano se paragonato alla procedura penale italiana per l’accertamento dei reati dove, invece, l’indagato o chi è destinatario di un ordine d’arresto è titolare e beneficia, in concreto, di una serie di cautele di legge, primo fra tutti il diritto d’informazione a garanzia dell’effettività del diritto di difesa ex art. 24 Cost. E, infatti, proprio tale discrasia ha rappresentato la chiave di svolta nella ricerca, da parte dell’avv. Gazidede di una soluzione giuridica idonea a porre rimedio alle derive del sistema, rappresentata dall’art. 13 T.U. sull’Immigrazione che, al comma 7, dispone la comunicazione e la traduzione, in una lingua comprensibile all’interessato, del decreto di espulsione o di ogni altro provvedimento riguardante l’ingresso e il soggiorno: evidentemente perché questi atti devono essere conosciuti dal destinatario per produrre effetti, a salvaguardia del consapevole contraddittorio.
E così l’avv. Gazidede testimonia il duro percorso di azioni giudiziarie di impugnazione dei decreti che, man mano, ha aperto una breccia nella giurisprudenza, sempre più concorde nel concludere per la dichiarazione di nullità ab origine di questi atti, ossia come se non avessero mai prodotto effetti nella sfera giuridica di destinazione.
In questo modo, in teoria, il soggetto poteva essere riammesso nelle condizioni di accesso alla sanatoria senonché, Prefetti e Questori (in sostanza il Governo) lo negavano sulla scorta un’ulteriore contraddizione dispositivo-amministrativa ingenerata dal fatto che la nullità inficiava il decreto e non l’accompagnamento alla frontiera – di fatto disposto – che comportava, a sua volta, l’applicazione dell’art. 13 c. 13 T.U. sull’Immigrazione agli effetti del quale la persona destinataria di un provvedimento di espulsione può rientrare nel territorio statale solo previa speciale autorizzazione del Ministro dell’Interno oppure deve attendere la durata prevista dal Decreto, tendenzialmente decennale, data, anch’essa, senza criterio e proporzionalità al caso specifico.
E, da qui, l’ulteriore battaglia legale dell’avv. Gazidede fino alla rivoluzionaria sentenza TAR la quale afferma l’illegittimità dei decreti di espulsione adottati in violazione di principi o procedure di legge e dichiarati nulli ab origine sulla base di un concetto giuridico di base: se un provvedimento nasce nullo tutti gli atti successivi devono considerarsi come non posti in essere e, quindi, la stessa esecutività data dall’accompagnamento alla frontiera.
Pertanto, si è eretto un sistema – un po’ volontariamente, un po’ per negligenza – che crea irregolari, frutto anche dell’ottica di dover combattere un’invasione, di essere al collasso anche se i numeri dicono un’altra cosa: secondo l’Agenda Europea dell’Immigrazione delle 11.000 persone sbarcate in Europa solo 5.000 sono approdati in Italia.
Tuttavia, automatismi insani e ostruzionistici sono ancora destinati a crearsi.
L’ultimo Decreto Sicurezza restringe le maglie dell’accoglienza eliminando il fiore all’occhiello del sistema SPRAR, l’apparato di seconda accoglienza previsto e strutturato per rendere i migranti risorse attive nel e per il territorio, discorso risultato, evidentemente, poco conveniente perché assorbe tempo, energie economiche e chance potenziali per gli “Italiani”.
È venuta meno, altresì, la protezione umanitaria, disposizione che, oltre ad essere di per sé limitativa, ha comportato la produzione di ulteriori pretesti burocratici che hanno applicato la nuova normativa abrogativa anche alle domande di riconoscimento di tale status giuridico presentate prima della sua entrata in vigore, solo perché non ancora definite entro quella data. Questo fino a una pronuncia della Corte di Cassazione che si è espressa in favore dell’applicazione della disciplina precedente.
Per di più ora la stessa cittadinanza è revocabile e, se succede, normalmente si diventa apolidi e se, invece, accade a chi è privo di documenti e delle autorizzazioni di legge per le svariate ragioni sin qui descritte cosa si diventa? Clandestini!
Come evidenzia l’avv. Gazidede, si sta ricreando il rapporto tra cittadino e non essere cittadino esistente ai tempi dei Romani. Tuttavia, la tentazione non deve essere quella di sabotare le leggi che non piacciono, anche se ingiuste. La vera sfida è trovare strade legali per sforzarsi di applicarle e farle applicare secondo giustizia e la logica che il caso concreto richiede o intraprendere vie democratiche per modificare e migliorare quelle “insalvabili”.
E la testimonianza di Uljana è segno della possibilità di liberare i Diritti dalle pastoie dei processi sistemici insani, di essere, soprattutto dal piccolo, uomini e donne costruttori di buone prassi per passare da un sistema che agevola irregolarità a un sistema che agevola legalità, da un sistema che crea clandestinità a uno che crea appartenenza.

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