Incontro 31 gennaio 2021

Bari | 07 Feb 2021

Domenica 31 gennaio sulla piattaforma Jitsi si è tenuto il nostro incontro di gruppo, dedicato all’ascolto della testimonianza di Simone Parimbelli, laico missionario comboniano del gruppo di Venegono Superiore (VA) in missione in Repubblica Centrafricana per tre anni e mezzo (da inizi 2017 a metà 2020) e alla condivisione sulle ministerialità portate avanti come singoli e come gruppo in questa prima parte d’annata (seguirà specifico report nelle prossime settimane) e sulle esperienze formative e spirituali vissute da ciascuno/a nel medesimo periodo.
L’incontro si è aperto con una preghiera per la pace – attenzione tematica della Chiesa universale in questo mese che volge al termine – in sango (principale lingua parlata nella Repubblica Centrafricana) proposta da Simone.

La testimonianza di Simone è ruotata attorno a tre parole chiave, accompagnata dalla visione di alcuni filmati della sua esperienza missionaria:

1) «Fragilità: una delle ministerialità portate avanti dalla comunità internazionale dei LMC della parrocchia di Mongoumba, nella quale ho operato assieme a laiche missionarie comboniane provenienti dal Portogallo e dalla Polonia, era la gestione di un piccolo dispensario medico. Alcune volte la partita tra la vita e la morte l’abbiamo persa, e abbiamo toccato con mano che non siamo onnipotenti. Particolarmente toccante la morte dei bambini. In questi frangenti entra in campo la fede, non resta altro che la preghiera. In Africa la gente si trova a combattere con malattie ormai debellate da tempo nel Nord del mondo, ecco perché è più abituata di noi a mettere tutto nelle mani di Dio. In missione la fragilità si tocca quotidianamente.
2) Fratellanza: per il “sistema” certi bambini della Repubblica Centrafricana non esistono, dato che non sono registrati all’anagrafe; molti di loro non sanno neanche la propria età. Il “sistema” produce scarti, avanzi. Un’altra ministerialità portata avanti a Mongoumba dai LMC è la gestione della scuola in favore dei bambini di etnia pigmea, che la popolazione di etnia bantu considera schiavi: il rapporto feriale con i bambini, arricchito con l’animazione della liturgia della Parola e la distribuzione dell’Eucarestia nei giorni festivi, ci ha fatto sentire “famiglia”, tanto che pian piano i genitori dei bambini hanno maturato quella fiducia che ci ha consentito di vaccinare i loro figli, consenso che in precedenza avevano rifiutato nei confronti di una ONG.
3) Fragranza: partendo dalla consapevolezza di essere tutti fragili e fratelli, quando diventiamo famiglia si sparge nell’aria la fragranza del Vangelo: c’entra la fede con l’essere laici missionari comboniani, perché quando gli scartati dal “sistema” si sentono a casa, accolti come figli, questo è Vangelo. Evangelizzare è testimoniare che siamo fratelli e sorelle, che non ci sono esseri superiori. Gesù spezza il pane e lo dà ai suoi discepoli. Se non insegniamo questo alle giovani generazioni, non andiamo da nessuna parte. Se non riusciamo a vederci fratelli e sorelle e ad includere chi è solo, la barca affonda».

Simone ha proseguito presentando le tappe del discernimento che lo hanno portato alla scelta di partire in missione ad gentes:

«Sono cresciuto nell’oratorio parrocchiale. Ad inizi 2015 è emersa in me la domanda “A cosa mi serve la fede oggi?”. Per capire, conoscere e respirare l’aria comboniana ho cominciato a frequentare il gruppo LMC di Venegono Superiore e ho partecipato ad alcuni campi estivi del GIM. Successivamente ho vissuto per qualche mese in una comunità di ACF e ho partecipato al corso per i partenti organizzato dal CUM. Non si parte da soli, ma in riferimento ad una comunità/gruppo locale e nazionale».

È seguito il dialogo tra i/le partecipanti all’incontro e Simone, di cui riportiamo domande e risposte.

• Perché la scelta della realtà comboniana? Che tipo di sostegno economico hai ricevuto? (Fabrizio)

«Papa Francesco traduce la parola vocazione con la frase “Io sono missione”, cioè l’unica cosa che possiamo fare in questo mondo: ognuno di noi ha uno scopo in questo pianeta, sta a noi trovarlo. Mi ha colpito l’interpretazione della fede che presenta la Famiglia comboniana: fede come esperienza di liberazione, che riguarda la giustizia, i nuovi stili di vita; una fede che c’entra con la nostra vita concreta, fede come collante dell’organizzazione sociale, fede che deve vedere i cristiani impegnati nel sociale. Senza fede non ci riconosciamo come fratelli e sorelle, figli di Dio, e ciò comporta che qualcuno si erge a faraone, sopra gli altri; la nostra fede viene dal Dio degli ultimi, degli umili, degli avanzi, degli scarti.
In missione ogni LMC riceve dal proprio gruppo locale di partenza un pocket money che si mette nella cassa comune della comunità».

• Qual è la ricchezza dell’esperienza comunitaria? Cosa prevedi per il tuo presente e per il tuo futuro? (Carmela)

«La comunità è una ricchezza se riusciamo ad armonizzarci. Ciascuno ha la sua originalità, la sua “nota”, ma per suonare dobbiamo armonizzarci. Ognuno suona la sua musica, per armonizzarci ci vogliono ascolto e dialogo paziente: se si riesce a fare questo, tale comunità “suona” da Dio, ed è attrattiva, fa ballare tutti. Unione nelle diversità. Ci vuole allenamento, ecco perché chi parte deve preventivamente fare una esperienza di comunità nel proprio Paese di origine. Ho sperimentato che il “Piano” di Comboni ha funzionato perché ha coinvolto tutti: neonati, mamme, giovani, ecc. I tre pilastri della Famiglia comboniana sono vocazione, comunità ed evangelizzazione.
Adesso vivo nella canonica parrocchiale del mio paese, prossimamente vivrò un’esperienza missionaria in Italia in un luogo da definire con il Consiglio Provinciale dei Missionari Comboniani d’Italia».

• Cosa avete fatto per rimuovere o quanto meno ridurre le cause di esclusione degli “scartati”? Se la tua vocazione di LMC ad gentes fosse a vita, come sostenerti economicamente? (Francesco)

«Abbiamo messo amore, in qualsiasi momento della giornata, piegandoci sulle loro piaghe.
Per sostenersi economicamente nella missione ad gentes in Italia bisogna redigere progetti e intercettare finanziamenti della Caritas, di Migrantes, ecc. Una mano in tal senso può venire anche dai componenti del gruppo che non hanno la possibilità di impegnarsi nella missione a tempo pieno».

• Qual è la tua formazione professionale? (Francesca – Bari)

«Sono perito agrario, ma alla base dell’essere LMC c’è la vocazione, c’è la propria chiamata alla missione. Ad esempio la vocazione a restare distanti dalla propria famiglia e ad adattare il proprio stile di vita dinanzi all’assenza di alcune comodità (acqua, telecomunicazioni, ecc.). Importante non trattare le persone come utenti, altrimenti risponderanno da utenti; se invece le trattiamo come essere umani, come figli, loro risponderanno con l’amore di figli. Si può fare del bene in tanti modi: lo specifico del laico missionario comboniano è farlo avendo un orizzonte di fede, di un Dio che è padre».

• Come hai superato le difficoltà, i momenti di sconforto? (Carlo)

«Li ho superati come diceva Comboni: ricordando la mia vocazione, il progetto di amore di Dio per me. Se ci fermiamo per le nostre paure, come il giovane ricco ce ne andiamo tristi».

• Come capire quanto questa chiamata sia di Dio e non del proprio ego? Quanto sei riuscito ad accorciare le distanze con gli altri? (Emilia)

«Bisogna farsi delle domande ed essere leali con se stessi. La missione è totalmente diversa da quello che abbiamo in testa. Chiederci che cosa ci attrae di un carisma. La Famiglia comboniana riconosce la dignità dei laici. Importante trovare le motivazioni dentro di sé. Il discernimento va ad esclusione: è più facile quando hai dinanzi a te solo una via, se ne hai tante devi chiudere pian piano le varie porte e camminare, ma una volta trovata la strada che fa per te, cammini velocemente.
Non si può essere plastificati quando si va in missione, altrimenti tutto ci scivola addosso. Non essere impermeabili, ma come bustine di tè che insaporiscono l’acqua. La missione richiede vicinanza, altrimenti non è reale: anche Gesù si è fatto prossimo toccando i lebbrosi e lavando i piedi».

• Come stai vivendo la tua missionarietà oggi? (Francesca – Foggia)

«Papa Francesco ci dice che la missione non è più geografica. Chi si dice discepolo, deve essere discepolo missionario: il papa ci sta parlando di una teologia dell’uscita. La fede tocca i problemi economici, sociali, ecc. Ciascuno deve chiedersi qual è la sua missione: io ad esempio non essendo molto portato per le lingue, sento di essere chiamato ad una missione in lingua italiana, se andassi all’estero avrei bisogno di un periodo di tempo prolungato per imparare la lingua locale. La fede ha maggior presa su chi è povero e scartato perché forse si deve affidare ogni giorno a Qualcuno per poter vivere».

Hanno preso parte a questo incontro: Carlo (Foggia), Carmela (Bari), Emilia (Licata – AG), Fabrizio (Bari), Francesca (Bari), Francesca (Foggia), Francesco (Troia – FG).

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