Risonanze su iniziative nel territorio locale

Bari | 26 Giu 2019

Il giorno 2 maggio presso la Basilica di San Nicola di Bari l’Ufficio Migrantes dell’Arcidiocesi Bari-Bitonto ha animato la celebrazione eucaristica intitolata San Nicola il pellegrino, una messa per e con i migranti che si tiene in una delle giornate del novenario di preparazione alla ricorrenza del santo patrono della città.
Un momento bello di ecumenismo vero, reale, senza confini come termine invoca, perché ha messo in relazione “fedeli locali” con persone di diversa nazionalità e religione insediate nel territorio barese oppure ospiti del CARA di Bari Palese, resi partecipi del rito con l’ufficio delle letture e le preghiere dei fratelli proclamate e recitate in lingua inglese e italiana.
Una testimonianza che un’armonia tra le “differenze” è possibile se si creano occasioni d’incontro, ascolto e conoscenza dell’altro, sebbene faticoso.
In quest’ottica, il rito è stato preceduto da una breve spiegazione alle persone ospitate presso il CARA della storia e delle opere del santo – nonché della tradizione barese ad esso ruotante –, una storia di migrazione come la loro giacché, San Nicola, originario di Patara di Licia, in Turchia, ha svolto il suo ministero, prima sacerdotale poi vescovile, a Myra e ha fatto esperienza di prigionia ed esilio durante l’impero di Diocleziano. Una storia, anch’essa, che ha attraversato i mari e che nemmeno dopo la morte lo ha visto giacere fisso in un posto perché le sue ossa furono trafugate da 62 marinai baresi dalla Cattedrale di Myra per essere poi condotte, per nave, nella loro città di Bari.
Un’occasione per rimembrare che siamo tutti migranti, o meglio pellegrini, come evidenzia don Michele Camastra, direttore dell’Ufficio diocesano Migrantes, perché persone costantemente in cammino, naturalmente predisposte al movimento, al di là di un discorso materiale-geografico. E, al contempo, un’occasione di sensibilizzazione al tema migratorio per i fedeli “nostrani”, a cominciare dai numeri dell’accoglienza inferiori rispetto ad altri paesi europei o ad altri paesi non comunitari, per screditare l’opinione “dell’invasione” ingenerata dai media; numeri, ad oggi, ancora drasticamente ridotti come dimostrano le presenze degli ospiti del CARA di Bari, scese per l’esattezza da 1500 a 400 circa. Numeri frutto di scelte politiche prive di progettualità, di una visione d’insieme delle cause – anche occidentali – dei fenomeni, prese nella convinzione che quello dei flussi d’ingresso da altre parti del mondo siano una minaccia alle potenzialità – già precarie – italiane e, quindi, solo problema da risolvere ed evitare dall’origine con la chiusura di porti e porte.
Una celebrazione che diventa un monito alla conversione della nostra ottica dell’Altro non comunitario da quella di “peso” a quella di “potenziale” umano, culturale ed economico per il nostro territorio, che può sprigionarsi solo con l’incremento dei canali d’integrazione, la quale resta il presupposto essenziale per una sana accoglienza a misura degli ospitati e ospitanti.
Canali che si creano con gesti semplici, con sguardi che sanno mettere in relazione ma capaci di spezzare le sbarre delle prigioni fisiche e mentali sofferte da ognuno e gettare le fondamenta salde di ponti di comunione.
Quando incontrate qualcuno straniero, allungatela quella mano”, invita don Michele. Be’, quella mano si è di certo allungata con tutto il braccio da parte dei “fedeli baresi” prendendo il posto dello smarrimento iniziale, soprattutto dei più anziani quando gli stessi, nonostante le loro difficoltà motorie, hanno voluto avvicinarsi ai bambini, ragazzi, madri e padri ospitati nel CARA per vivere il segno di pace e il momento di congedo finale.
Il farsi prossimi, il gesto di pace, il saluto: che catechesi!
Da chi magari ci si può aspettare una mentalità più retrograda e confinata si sono aperte le braccia dell’umanità, come lo sono quelle di Gesù in Croce aperte a tutti!

Organizzato dalla Caritas diocesana, il giorno 18 maggio si è tenuto un incontro sul tema “Cittadini e credenti a tutto tondo”, nel quale è intervenuto Leonardo Palmisano, scrittore e sociologo impegnato sui temi dell’antimafia.
L’incontro è stato introdotto dal direttore della Caritas diocesana, don Vito Piccinonna, il quale ha esordito dicendo che è necessario andare alla radice di certe situazioni. Dobbiamo essere samaritani dell’ora “prima”, dell’ora “giusta” e dell’ora “dopo”. Quando alcuni luoghi/settori si lasciano “scoperti”, esce fuori di tutto. Dinanzi alla frase di Gesù: “Questo è il mio corpo dato per tutti”, non si può parlare di nazionalismi. Il terrorismo nasce dall’assenza di identità nel paese di accoglienza da parte delle seconde generazioni di immigrati. La solidarietà prima di essere un dovere, è un diritto.
È quindi intervenuto il relatore Palmisano, il quale ha evidenziato che non deve mai prevalere l’istinto a rispondere alle provocazioni (riferimento al caso della famiglia rom aggredita a Roma in quei giorni, n.d.r.). Bisogna avere diritto a prendersi una “pausa”, a domandarsi del perché, delle cause dei fenomeni (povertà, spaccio, ecc.): la causa principale è la non equa redistribuzione della ricchezza attraverso il lavoro. Essere cittadini e credenti a tutto tondo significa mettere in discussione ciò che facciamo quotidianamente; non è facile farlo su tutto: interrogarsi sulla provenienza dei prodotti che acquistiamo e sulla qualità dell’informazione ricevuta è già un buon inizio.
La personalizzazione di una campagna sociale è causa del suo indebolimento: basta un po’ di antipatia verso il promotore della campagna e viene meno il sostegno ad una campagna necessaria. Se la discussione e il dibattito rimangono solo sul web e sono veicolati da una sola persona, si producono mitologie, e queste producono processi di emulazione.
Purtroppo spesso il concetto di “cittadini” è sostituito da quello di “consumatori”, per cui se si hanno i soldi, tutto è concesso.
Se non ci preoccupiamo dell’esercizio dei diritti degli altri, nessuno penserà a quelli nostri.

In data 21 maggio si è tenuto l’ultimo incontro del ciclo “Martedì della conoscenza” organizzato dai Missionari Comboniani di Bari, dal titolo “Verso la città interculturale, quale integrazione?”, a cui hanno preso parte due relatori.
L’avvocato Gianni D’Innella ha affermato che l’integrazione è un percorso, che si distende nel tempo, che è dovuto a diversi fattori: mercato del lavoro, modello di welfare, possibilità di trovare casa, lingua, confessione religiosa. Essa è più facile dove ci sono lavoro, casa, amicizie. La difficoltà ad offrire radicamento e affezione ad uno spazio fisico è dovuta alla “rapidità” del mondo, che annienta tempo e spazio. L’identità del migrante, almeno all’inizio, è un identità “sospesa” tra paese di origine e paese di accoglienza. I migranti spesso vivono una dimensione di integrazione “subalterna”, che è dovuta a tre fattori: a) straniero visto come persone in stato di bisogno; b) straniero visto come forza lavoro per quei settori che ne non ne hanno; c) straniero come turbativa all’ordine pubblico. L’opinione pubblica guarda al migrante come corpo estraneo, ma necessario in certi casi. L’integrazione è più difficile senza diritti di cittadinanza, possibilità di partecipazione, povertà economica. È necessario cambiare linguaggio nell’approcciarsi agli immigrati: prendere ad esempio i paesi scandinavi, non usano più il termine “straniero”, ma quello di “abitante”.
L’avvocato Antonio Di Muro, funzionario dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati ha sottolineato che primo diritto del rifugiato è quello di costruire un futuro il più possibile normale, e i mezzi perché ciò sia possibile sono: a) il ritorno alla propria casa; b) lo spostamento in altri paesi limitrofi; c) l’integrazione nella comunità di accoglienza. L’integrazione è un processo bidirezionale. Per un rifugiato la ricerca di lavoro è sedici volte più complessa rispetto ad un nativo e dodici volte più complessa rispetto agli altri immigrati. L’integrazione è destinata ad essere complessa se non si trovano lavoro e casa. Gli ostacoli più grandi all’integrazione sono: a) la cultura; b) la percezione di un senso di competizione.
Infine, Vito Savino, già presidente del Tribunale di Bari, è intervenuto dicendo che l’integrazione è possibile previo riconoscimento – da parte degli stranieri – dei valori giuridici ed etici della comunità di accoglienza, nonché previa valutazione – da parte della comunità di arrivo – delle possibilità di accoglienza.

Organizzato dal Movimento Antimafia di base di Bari, il giorno 23 maggio al termine di una marcia per le vie dei quartieri baresi Carbonara e Ceglie si è tenuto un incontro in memoria di Giovanni Falcone e le vittime della strage di Capaci, a cui hanno preso parte alcuni testimoni.
Federico Capano, Sostituto Procuratore della Repubblica presso la Direzione Distrettuale Antimafia di Bari ha esordito dicendo che è importante il ruolo dei testimoni per implementare i processi di mafia. Nel momento in cui si sceglie di essere dalla parte della “legalità” oppure della “non legalità” si sceglie di conseguenza di essere parte della “soluzione” oppure del “problema”. Nel momento in cui non si è parte della soluzione attivandosi (denunciando, collaborando con magistratura e forze dell’ordine), si è parte del problema.
Angelo Santoro, Presidente della Cooperativa “Semi di Vita”, sodalizio a cui è stata affidato un terreno agricolo confiscato alla criminalità organizzata a Valenzano (BA), ha sottolineato che è necessario partecipare all’intero processo di recupero di un bene confiscato alla criminalità organizzata, e non solo acquistarne i prodotti. È necessario uscire dal turbine del girare la testa: “Se non mi tange, non mi interessa”. Se non sentiremo “nostri” i beni confiscati alla criminalità organizzata, rimarremo sempre isolati. In questo processo nessuno è escluso, ma tutti sono inclusi.
Marco Costantino, co-ideatore del progetto “Avanzi Popolo 2.0”, ha evidenziato che la lotta allo spreco alimentare si articola in quattro dimensioni: etica (non è necessario produrre: è sufficiente condividere), sanitaria (l’eccesso di cibo genera obesità e conseguenti problemi di salute), ecologica (spreco di risorse per produrre cibo in eccesso non consumato), economica (spreco di denaro per generi alimentari non consumati).
Giovanni Ladiana, padre gesuita animatore del Movimento Antimafia di base di Bari, ha affermato che la nostra lotta non deve essere per vincere: la vittoria è già lottare. La sconfitta della mafia è che veda che non ci arrendiamo, che lottiamo. Stimare le forze dell’ordine che ci proteggono, che fanno sacrifici: anche loro, come i giudici, sono esseri umani. Chi è incapace di amare è già morto. Potranno ucciderci, ma saremo morti dopo che ci spareranno, ma non prima!

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