Risonanze su iniziative nel territorio locale

Bari | 09 Feb 2019

Si è tenuto nel mese di gennaio il primo appuntamento del ciclo di conferenze “Martedì della Conoscenza” organizzate dai Missionari Comboniani di Bari, sul tema Il fenomeno migratorio: i dati, le cause e gli effetti. Nell’incontro si sono analizzate cifre e caratteristiche dei movimenti migratori, allo scopo di comprendere l’impatto reale sulla nostra situazione politica-economica-sociale e la governabilità del fenomeno. Governabilità che, secondo le competenze ed esperienze sul campo dei relatori dott. Oliviero Forti, Direttore Nazionale dell’Ufficio Migranti di Caritas Italiana e dott. Vito Savino, Presidente emerito del Tribunale di Bari, è possibile e percorribile solo con un approccio metodico e poliedrico alla questione, a partire dall’azione solidale di ciascuno come singolo e/o come appartenente a delle realtà organizzate, i cosiddetti “corpi intermedi”, coesa con la promozione degli strumenti e dei progetti – esistenti o proponibili sul piano istituzionale, nazionale e internazionale – tesi a creare integrazione e canali sicuri d’ingresso. Ciò senza prescindere dall’approfondimento delle cause geopolitiche del problema.

I dati e le rotte

In particolare, il dott. Forti ha illustrato una serie di rilevazioni dei flussi migratori reali e le loro rotte al fine di riflettere sulla falsa percezione italiana del dato immigratorio. Oggi le principali rotte migratorie che interessano l’Europa e l’Italia sono quelle che si muovono dall’Africa occidentale, ossia da Ghana, Costa d’Avorio, Niger e, attraverso le linee del deserto, giungono al Nordafrica ove si decide il “canale di esodo”, tra quello libico e spagnolo, con una gestione storica informale e, ovviamente, illegale, ma risulta l’unica percorribile.
Una ricerca dell’Università di Würzburg sulla mobilità umana evidenzia che la maggior concentrazione dei movimenti delle persone migranti negli ultimi 15 anni – siano essi profughi, siano essi migranti economici – è sostanzialmente in 2 aree del pianeta: una è quella dell’Africa centro-orientale e l’altra è quella del Medio Oriente, quest’ultima chiaramente condizionata dalla crisi siriana che ha determinato lo spostamento di milioni di persone.
68.500.000 i migranti “forzati”, 25.400.000 i rifugiati e il 68% di chi fugge, fugge dalla Siria (6,3%) dall’Afghanistan (2,6%,) dal Sud Sudan (2,4%), dal Myanmar (1,2%) e 1 milione dalla Somalia.
Il messaggio importante emergente è che la nostra grande paura nei riguardi dell’immigrazione non è giustificata dai numeri. I Paesi maggiormente interessati dall’immigrazione sono gli Stati confinanti con quelli oggetto di conflitti o di grande tensione. Chi fugge, fugge nel posto più vicino dove può trovare sicurezza, e non in Europa. L’Europa è un qualcosa per chi ha la forza fisica e le risorse economiche per affrontare un viaggio non indifferente. Un viaggio che si affronta non solo con le gambe, ma anche pagando trafficanti, poliziotti, facendo lavoretti, fuggendo da torture e abusi. Chi non ha le forze, né l’età, né mezzi materiali, non lo affronta un viaggio così. Non è, quindi, un vezzo ma una necessità! E questo il dott. Forti lo afferma con fervore, ricco di esperienze vissute in prima persona, di ascolto quotidiano diretto dei bisogni dei migranti i quali, in occasione di missioni prestate per attuare il discorso dei corridori umanitari, in particolare in favore dei rifugiati al confine tra l’Etiopia e il Sud Sudan ove sono presenti enormi campi profughi ospitanti 20/30/40.000 persone, gli stessi gli hanno espressamente dichiarato il loro disinteresse al trasferimento in Europa.
Analoghe dichiarazioni provengono dai rifugiati in Turchia, nazione che insieme alla Giordania e all’Iran sono i Paesi dove i siriani si sono spostati immediatamente.
Il loro obiettivo non è l’Europa ma è quello di creare le condizioni per tornare alla casa dalla quale sono scappati solo per evitare scorribande mortali. La loro ansia più grande è quella di proteggere i loro bambini e di assicurare loro il migliore status: la loro crescita è adesso e può essere irrimediabilmente compromessa nella città natale. Questo è il grande tema da interiorizzare!
Altri dati particolari e interessanti provengono dal Libano e dall’Etiopia. In Libano 1 residente su 6 è un rifugiato: in Italia i rifugiati sono il 2,4‰… facciamo le proporzioni! L’Etiopia attualmente ospita da 850.000 a 1 milione di rifugiati; una nazione economicamente in crescita, ad un tasso di circa 10% annuo ma che, comunque, soffre di povertà a livelli ancora molto alti e, nonostante ciò, accoglie questi numeri che, se rapportati ad altre realtà europee, fanno impallidire. Evidentemente le condizioni d’accoglienza non saranno ideali, non vi sono gli SPRAR, non vi è l’appartamento ma vi sono i campi profughi, città fatte di capanne, di cartone, di plastica all’interno della foresta ma posti dove, perlomeno, non si è perseguitati, sono luoghi sicuri, con uno sforzo importante che deve essere riconosciuto al governo etiopico. Vi sono quindi Paesi che riescono a sopravvivere, a non implodere, smentendo il timore sempre più diffuso nel nostro Paese.
Quindi il timore di un’invasione siriana – che poi è il timore di un’invasione islamica – è poco fondato, perché la mobilità ha interessato in minoranza l’Italia, e una parte di quei siriani che sono venuti entro le 48 ore sono andati via o andavano subito altrove.

Conseguenze ed effetti

Di fronte alla percentuale di umanità in fuga verso il continente europeo l’effetto principale è stato l’avvio di un processo di esternalizzazione delle frontiere, cioè uno spostamento dei confini europei verso Sud, dettato dal senso di paura, di disagio, di disorientamento del cittadino sul proprio territorio che ha legato la questione migratoria a quella del consenso elettorale, con risposte politiche di contenimento dei flussi più preoccupate dai voti.
Processo che ha avuto come capofila i Paesi dell’Europa centro-orientale, del cosiddetto blocco di Visegrád, quali Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia e Polonia, che ha visto il premier Orbán estendere un filo spinato, sebbene in Ungheria non vi sia mai stata una crisi migratoria; seguito, poi, dall’Inghilterra con la Brexit, conseguenza anch’essa, evidentemente, di questo sentire dell’immigrazione, con la differenza che gli inglesi non hanno paura di chi proviene dall’Africa ma di chi arriva dalla Polonia e dall’Italia perché competitors lavorativi.
Esternalizzare è significato, altresì, chiedere ad altri di fare il lavoro di “gestione” che non possiamo e non vogliamo fare noi. In particolare l’abbiamo chiesto alla Turchia e alla Libia con accordi che prevedono il fermo delle persone in partenza dietro pagamento, essenzialmente “ti pago se tu mi blocchi i migranti”.
A tal proposito il dott. Forti tiene a precisare che le vicende libiche non sono le vicende di Salvini e questo non lo dice per giustificare o appoggiare le sue scelte, ma è un dato di fatto, perché Salvini porta semplicemente avanti scelte precedenti, prese anche nei governi di sinistra.
I risultati di questa politica europea registrano cali drastici negli arrivi, più dell’87% degli arrivi.
Secondo le rilevazioni dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM), nel 2018 l’Italia ha avuto 22.000 arrivi, la Spagna 50.000 e la Grecia 28.000, e questo per rispondere a coloro che si sentono sotto attacco dall’immigrazione.
Il dott. Savino riporta in merito altri dati interessanti: a porti chiusi tra il 27 e 30 dicembre 2018 sono sbarcate in Italia 160 persone, 359 nell’intero mese di dicembre, 3.253 dalla crisi della Diciotti.
Coloro che, invece, erano in procinto di partire sono rimasti bloccati in Libia, nelle carceri e nei lager, in mano ai miliziani che fanno riferimento al governo con il quale abbiamo fatto quell’accordo, in condizione di oppressione e non possono andare né avanti né indietro e cercano, come possono, di imbarcarsi, comunque rischiando la morte in mare. Perché tanto la rischiano in ogni caso!
Eppure, l’altro effetto incredibile è che tutto questo sembra causare più nessun tipo di reazione perché avvertiamo maggiormente l’esigenza di controllare i nostri confini. L’italiano, da essere generoso, solidale, oggi è pro-immigrati solo nella misura del 30%. Percentuale inferiore a quella mondiale che è del 55%!

Possibili soluzioni

Il tema dell’immigrazione è il fattore di concause, dallo sfruttamento dell’Africa a conflitti locali che durano da decenni, la mancanza di sviluppo economico, conflitti etnici, responsabilità occidentali e delle popolazioni locali, che va affrontato con la stessa complessità che merita. È vero che ingressi esterni possono essere un potenziale pericolo, non bisogna santificare il migrante! Ma vi sono, in ogni caso, persone portatrici di bisogni importanti, comprese coloro che denominiamo come migranti economici, i quali si spostano per assicurare sopravvivenza, cibo ai propri bambini: è solo una etichettatura d’interesse dietro alla quale ci si nasconde per giustificare l’allontanamento, nata dalle indicazioni dei trattati internazionali che riconoscono lo status di rifugiato e protezione internazionale a casi determinati di spostamenti forzati, “solo” beneficio di chi è personalmente perseguitato (art. 1 della Convenzione di Ginevra).
Ma la chiusura di porte e porti è una soluzione?
Il dott. Savino riporta una stima dell’Istituto degli Studi di Politica Internazionale, secondo cui l’aumento dei “clandestini” nei prossimi 2 anni per effetto del Decreto Sicurezza è di 131.000 così divisi:

• 72.000 per l’arretrato delle commissioni prefettizie;

• 32.000 per il mancato rinnovo;

• 27.000 per il mancato rimpatrio.

A dicembre 2017 risultavano in Italia 491.000 irregolari. Secondo la previsione innanzi descritta aggiungendo a tale cifra i 131.000, tra 2 anni avremmo 622.000 irregolari. Secondo la Commissione Parlamentare sulle periferie, 600.000 sarebbero già sul territorio che, sommati ai 131.000, avremmo 700.000 persone cosiddette “invisibili” e pone un tema giuridico-politico-sociale importante. I rimpatri vanno al ritmo di circa 20 al giorno e si può facilmente derivare che per rimandare indietro i migranti occorrerebbe un tempo interminabile, tra gli 80 e 90 anni per l’esattezza.
Perciò muri e allontanamenti senza progettualità non costituiscono una soluzione: è come il meccanismo dei sistemi dei vasi comunicanti: se non esce da una parte, uscirà dall’altra.
Il dott. Forti propone il sostegno dei canali legali e sicuri d’ingresso, dalla ripresa e potenziamento del sistema delle “quote lavoro” per i migranti economici – in base al quale il governo stabilisce una soglia di ingressi sul fabbisogno annuale della forza lavoro stimato dalle imprese – ai meccanismi anche internazionalmente riconosciuti per il migrante “forzato” quali:

Resettlement, ossia reinsediamento, che consiste nel trasferimento di rifugiati, già riconosciuti dall’UNHCR da un Paese di primo asilo, dove non ci sono possibilità di integrazione o la protezione può essere messa a rischio, verso altri Paesi;

Corridoi umanitari, una forma di resettlement che prevede la predisposizione, da parte degli Enti promotori, di una lista di potenziali beneficiari rifugiati da trasferire dai Paesi di partenza aderenti, previo controllo e autorizzazione delle autorità consolari italiane e del Ministero dell’Interno, che rilasciano, poi, visti umanitari con validità territoriale limitata;

Evacuazioni umanitarie, trasferimenti d’urgenza che si mettono in moto insieme ai governi in situazioni di forti crisi;

Accordi bilaterali con i Paesi di partenza.

A tali soluzioni il dott. Savino aggiunge il rafforzamento della funzione dei cosiddetti “corpi intermedi”, ossia di associazioni, enti, organizzazioni nazionali e internazionali (come Caritas, parrocchie, sindacati) che con la loro azione giocano un ruolo essenziale nel contenimento di quell’indifferenza umana creatasi, nonché nell’estensione delle garanzie di legge alle fattispecie e necessità sociali nuove che, in quanto tali, non trovano sempre un riferimento normativo, come avviene spesso per le persone immigrate.
Il dott. Savino porta l’esempio degli art. 2 e 3 della Costituzione: il riferimento a tutti, i “cittadini” e “non cittadini”, è operato dalla disposizione del primo articolo, ma quando la stessa Carta Fondamentale passa alla considerazione dell’uguaglianza, alla promozione del diritto al lavoro, enuclea soltanto i “cittadini”.
Ne deriva che la strada ipotizzabile è quella di un rapporto continuativo tra forze politiche, corpi intermedi e cittadinanza attiva nell’individuazione di risposte su misura, così da adottare certe politiche portate avanti già da certi organismi in piccole e medie dimensioni a livello centrale su larga scala, sempre verificando a monte possibilità e limiti dell’integrazione, che è il presupposto essenziale per fare accoglienza! Senza integrazione si determinano conseguenze negative, vi è disimpegno a spese dello Stato, lotta fra poveri, si acuiscono i problemi delle periferie, della delinquenza, delle mafie straniere nigeriane, russe e albanesi. Così potrebbero moltiplicarsi i numeri degli inserimenti con migliore integrazione, dei rimpatri verificati e dimezzarsi quelli delle tragedie di morti, delle spese e delle perdite economiche e non per queste persone e nostre: si fa fatica a comprendere che esse possono essere una risorsa culturale, finanziaria, umana per noi affatto indifferente.

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