Risonanze su iniziative nel territorio locale

Bari | 01 Mag 2019

Organizzato dalla Caritas diocesana, il giorno 2 marzo si è tenuto un incontro sul tema Beati i miti. AAA Parole e gesti non violenti CERCASI”, nel quale è intervenuto Marco Iasevoli, giornalista di “Avvenire” che ha offerto molteplici spunti di riflessione.
La mitezza non riguarda soltanto atteggiamenti e comportamenti, ma è anche un progetto culturale: per sostenere un servizio ci vuole sempre formazione e cultura, perché ad un certo punto per andare avanti, per procedere, per migliorare, non basta la buona volontà. La mitezza ci richiama all’unità della nostra persona, alla coerenza tra fede e vita: non è possibile essere cristiani solo in chiesa ma non anche in famiglia, al lavoro, per strada, sui social network. Attraverso la formazione e la cultura siamo chiamati a fare sintesi delle varie pulsioni che ci abitano.
Bisogna fare attenzione ad un rischio, e cioè che non si passi dalla “mitezza” al sentirsi “mito”: è necessario purificarsi costantemente dalla tentazione di vivere il servizio come un potere.
La mitezza ha a che fare con la relazione con gli altri: non su quanto sono pacificato con me stesso, ma sul tenere in alto la considerazione di avere dinanzi a me un essere umano, con la sua dignità che merita stima, fiducia, sostegno. Solo chi si relaziona agli altri con mitezza costruisce la pace, quel piccolo pezzetto di pace che è stato assegnato ad ognuno di noi. Mentre si ristora una persona contingente, con quel gesto si sta dando vita, consapevolmente, ad un progetto di pace e giustizia sociale più ampio di quello che si sta facendo.
Il mite “pesa” molto le parole che dice, valutando le reazioni che le stesse potrebbero avere sugli altri. Usare le parole per distruggere è la rovina della mitezza. Le parole sono fondamentali per l’armonia di un gruppo, di una comunità. Il mite è colui che tiene il dominio di sé. Si è ciò che si comunica. Le parole che scelgo raccontano la persona che sono. Prima di parlare, bisogna ascoltare, ben interpretare. Le idee si possono discutere, condividere o contestare con buoni modi, ma le persone che le sostengono si devono sempre rispettare, non perdono la loro dignità. Gli insulti non sono argomenti e anche il silenzio comunica. È gesto di umiltà tacere quando non si è adeguatamente informati su un argomento.
Il mite è colui che ha coraggio di rendere grazie di quello che ha e che si adopera per il bene comune con queste due caratteristiche:
a) puntando al possibile realisticamente realizzabile, non lasciandosi andare all’utopia, essendo realisti e consapevoli che non si cambierà il corso della storia, ma solo quello che ci sta attorno;
b) puntando al massimo bene possibile nelle condizioni in cui ci si trova (risorse umane, economiche, di tempo, ecc.).
Dobbiamo essere quelli della “radicale mitezza” (non lasciarsi corrompere da niente e da nessuno, dal dibattito politico, dalle fazioni interecclesiali, ecc.) e della “mite radicalità” (molto radicali nei valori che proponiamo, ma con mitezza, senza urlare): mitezza non è acquiescenza supina. Il mite si indigna, si ribella contro l’ingiustizia, ma dopo aver espresso il proprio dissenso, si mette all’opera. La mitezza è un modo di operare contro l’ingiustizia. Miti non significa diventare “mosci”, ma essere a tutti gli effetti dei “guerrieri”.
Come far emergere la voce del mite nella società? Passando dall’agire da solo all’associarmi ad altri. Passare dall’io al noi.

Organizzato dal Movimento Antimafia di Base, il giorno 4 marzo si è tenuto un incontro di riflessione in preparazione alla marcia del 16 marzo in memoria di Giuseppe Mizzi, vittima innocente di mafia del quartiere Carbonara di Bari, a cui hanno preso parte tre testimoni.
Domenico Mortellaro, criminologo, ha fatto una panoramica della storia della criminalità organizzata nel quartiere Carbonara di Bari. Ha raccontato di come certe ragazze che scelgono di fidanzarsi con giovani legati alla criminalità organizzata tendano a perdere la loro identità personale e familiare sui social network sostituendo il proprio cognome con quello del partner, nonché facendo pubblicamente gli auguri alla “futura” suocera in occasione della “festa della mamma”; le famiglie delle ragazze sono accondiscendenti a questo stato di cose in quanto c’è molta sfiducia sul fatto che le loro figlie possano trovare lavoro, per cui ritengono che “l’accasarsi” sia la strada più sicura per garantire alle ragazze una qualche forma di autonomia di vita. Entrare nella criminalità organizzata in genere porta solo due conseguenze: o si muore in modo violento oppure si diventa piccoli delinquenti costretti a vivere di espedienti; non esistono i boss rappresentati dalla fiction “Gomorra”…
Gianni Bianco, giornalista del TG3, ha presentato i servizi della testata giornalistica di cui è componente, dedicati ad alcune realtà e testimoni del territorio nazionale che si sono opposti alla criminalità organizzata.
– Associazione Pollici Verdi di Scampia (https://www.youtube.com/watch?v=Ixfj97-fd4k): associazione di cittadini che ha deciso di prendersi cura della villa comunale. La loro vicenda evidenzia che il chiudersi in se stessi rende deboli e vigliacchi, mentre l’uscire e l’impegnarsi rende liberi.
– Associazione Corto Circuito di Reggio Emilia (https://www.youtube.com/watch?time_continue=7&v=cvyfoyMK9zY): giornale studentesco di inchiesta che per primo ha denunciato le infiltrazioni della ’ndrangheta nel loro territorio. La loro vicenda evidenzia che le mafie crescono dinanzi alla nostra indifferenza.
– Consorzio Goel Bio (https://tv.goel.coop/tg3-festa-della-ripartenza-2.html): cooperativa che dinanzi ai danni arrecati dalla ’ndrangheta ai loro terreni non si scoraggia e provvede sempre a reimpiantare quanto distrutto. La sua esperienza evidenzia che la criminalità non può fermare una comunità coesa.
– Roberto Esposito La Rossa, attivista dell’associazione Voci di Scampia. Il suo messaggio è che da soli non si può fare nulla, bisogna fare rete, mettere a disposizione i propri talenti per gli altri.
Roberto Rossi, procuratore aggiunto della Procura della Repubblica di Bari, ha sottolineato che la forza della criminalità organizzata si fonda sulla paura delle persone. Ha raccontato di come di fronte al fermo e sicuro rifiuto di un imprenditore di pagare il pizzo – imprenditore che non conosceva chi fosse il suo estorsore – l’estorsore si allontanò balbettando, constatando di non riuscire ad incutere sulla vittima alcun timore. E ha rammentato di come in occasione di un processo una vittima di estorsione – che inizialmente stava testimoniando il falso – ebbe il coraggio di denunciare i suoi persecutori grazie all’esortazione di sua figlia di avere il coraggio di spezzare la catena dell’oppressione e di essere coerente con gli insegnamenti di onestà e rettitudine che le trasmetteva quando era bambina. I membri della criminalità organizzata non sono persone ricchissime: in genere hanno uno “stipendio” di 400 euro al mese, che si riducono a 50 euro quando si è carcere. Le loro sono vite “spezzate”: emblematico il caso di un boss in carcere che, nonostante ripetute richieste, non sia più riuscito a rivedere i suoi nipoti.

Organizzato dai Missionari Comboniani, il giorno 19 marzo si è tenuto il terzo incontro del ciclo “Martedì della conoscenza” sul tema Migrazioni, Ius Soli e Governance migratoria”, a cui hanno preso parte due relatori.
Luigi Pannarale, docente di sociologia del diritto presso l’Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”, ha esordito dicendo che l’indignazione tipica della generazione degli anni ’70 oggi è poco abituale.
Molte posizioni politiche e consuetudini invalse non rispettano né la Carta dei diritti dell’uomo né la Costituzione italiana, in particolare l’art. 10.
L’approccio analitico al fenomeno legato alle immigrazioni è passato da sociologico a problema di ordine pubblico. Uno straniero oggi non può trasferirsi in Italia in maniera legittima. C’è chiusura totale, salvo qualche sportello su richiesta precisa di manodopera, poco praticabile (un imprenditore deve conoscere direttamente lo straniero da assumere, il quale per essere assunto deve ritornare nel suo paese – dal quale è fuggito – e produrre la documentazione necessaria).
L’opinione pubblica parla dei flussi migratori nei termini di “assalto”, “invasione”, “terrorismo”. In realtà la maggior parte degli stranieri arriva con visti turistici, di studio o di lavoro ma, una volta scaduti, si trovano in condizione di irregolarità, da cui difficilmente escono. C’è un vuoto normativo, per cui i “clandestini” non possono passare allo status di “regolari”: sono ombre, non cittadini, ben visibili però alla criminalità organizzata.
Ci sono diritti di cittadinanza ma anche diritti umani che il nostro Stato si è impegnato a riconoscere a qualsiasi persona, in particolare se si trova sul nostro territorio.
Pensare all’immigrazione come una risorsa è sbagliato. Perché dobbiamo pensare all’“utilità” di accogliere, piuttosto che al “diritto” di essere accolto? I rivoluzionari francesi, in un progetto di costituzione mai applicata, affermavano che qualsiasi persona si trovasse sul suolo francese e che rispettasse le leggi francesi fosse benvenuta in Francia. L’unica condizione è il rispetto delle leggi. Questo esempio potrebbe essere utile nel dibattito su “ius sanguinis” e “ius soli”.
Perché trasformare una persona in “non controllabile”, “irregolare”, piuttosto che facilitare la regolarizzazione? È approccio ottuso, perché le migrazioni sono fenomeno incontrovertibile.
Una macchina costosissima è quella dell’espulsione con risultati scarsi: neanche il 10% viene espulso. I “cattivisti” non si rendono conto che essere “buonisti” garantisce condizioni migliori e non costa di più. Un ospite dei CARA (dove vengono trattenuti i richiedenti asilo) costa quanto uno degli SPRAR (comunità con funzione di integrazione con il territorio).
Il relatore conclude dicendo che per approfondimenti, è possibile consultare il sito www.osservatoriomigranti.org.
Don Gianni De Robertis, Direttore nazionale Migrantes, ha sottolineato che non è facile mettersi in discussione nell’incontro con culture diverse: avere dubbi e timori non è peccato, lo è il fatto di farsi dominare da questi sentimenti. Si veda quanto accaduto a Pietramontecorvino, una piccola località della Daunia: la gente protestava perché un imprenditore voleva accogliere un centinaio di migranti.
Non bisogna entrare nella logica delle tifoserie: non bisogna mai stancarsi di dialogare, di portare le persone a riflettere, entrando in relazione con gli altri.
L’emergenza non è quella delle invasioni, il problema è la fuga dall’Italia, il cui numero è maggiore di quanti giungono in Italia, con un incremento degli over 50 negli ultimi anni.
L’irregolarità e la cattiva accoglienza sono i veri problemi. Il papa non parla mai di accoglienza semplicemente, ma di “accogliere”, “proteggere”, “integrare”. L’alternativa ai porti chiusi non sono i porti aperti. La sfida è complessa ma vale la pena di essere vissuta: ciò che si sta generando è un’umanità più fraterna.
In ogni persona c’è un segreto e noi dobbiamo essere curiosi!!!
Degli stranieri residenti in Italia, 500.000 sono nati in Italia. Perciò non si possono considerare stranieri. Si veda la storia di una ragazza di origini cingalesi, che non si riconosce più nella cultura dei suoi genitori, perché cresciuta in Italia, ma che si scontra continuamente con la penalizzazione di non essere italiana (non può partecipare a gite scolastiche all’estero, per esempio). Gli italiani all’estero vivono le stesse fragilità degli stranieri in Italia: 120 italiani vivono sotto i ponti a Londra. In qualche modo siamo tutti stranieri in questo mondo.

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