Incontro 18 febbraio 2017

Bari | 07 Mar 2017

L’attività missionaria delle Chiese particolari (Ad Gentes 20)

La Chiesa particolare, dovendo riprodurre il più perfettamente possibile la Chiesa universale, abbia la piena coscienza di essere inviata anche a coloro che non credono in Cristo e vivono nel suo stesso territorio, al fine di costituire, con la testimonianza di vita dei singoli fedeli e della comunità tutta, il segno che addita loro il Cristo.
È inoltre necessario il ministero della parola, perché il messaggio evangelico giunga a tutti. Il vescovo deve essere essenzialmente il messaggero di fede che porta nuovi discepoli a Cristo. Per rispondere bene a questo nobilissimo compito deve conoscere a fondo sia le condizioni del suo gregge, sia la concezione che di Dio hanno i suoi concittadini, tenendo conto esattamente anche dei mutamenti introdotti dalla cosiddetta urbanizzazione, dal fenomeno della emigrazione e dall’indifferentismo religioso.
I sacerdoti locali attendano con molto zelo all’opera di evangelizzazione nelle giovani Chiese, collaborando attivamente con i missionari di origine straniera, con i quali costituiscono un unico corpo sacerdotale riunito sotto l’autorità del vescovo: ciò non solo per pascere i propri fedeli e per celebrare il culto divino, ma anche per predicare il Vangelo a coloro che stanno fuori. Perciò dimostrino prontezza e, all’occasione, si offrano generosamente al proprio vescovo per iniziare l’attività missionaria nelle zone più lontane ed abbandonate della propria diocesi o anche di altre diocesi.
Dello stesso zelo siano animati i religiosi e le religiose, ed anche i laici verso i propri concittadini, specie quelli più poveri.
Le conferenze episcopali procurino che periodicamente si tengano corsi di aggiornamento biblico, teologico, spirituale e pastorale, allo scopo di consentire al clero, di fronte al variare incessante delle situazioni, di approfondire la conoscenza della teologia e dei metodi pastorali.
Quanto al resto, si osservino religiosamente tutte le disposizioni che questo Concilio ha emanato, specialmente quelle del decreto relativo al ministero ed alla vita sacerdotale.
Una Chiesa particolare, per poter realizzare la propria opera missionaria, ha bisogno di ministri adatti, che vanno preparati tempestivamente in maniera rispondente alle condizioni di ciascuna di esse. E poiché gli uomini tendono sempre più a riunirsi in gruppi, è sommamente conveniente che le conferenze episcopali concordino una comune linea di azione, in ordine al dialogo da stabilire con tali gruppi. Se però in certe regioni esistono dei gruppi di uomini, che sono distolti dall’abbracciare la fede cattolica dall’incapacità di adattarsi a quella forma particolare che la Chiesa ha assunto in mezzo a loro, è senz’altro desiderabile che si provveda ad una tale situazione con misure particolari finché non si arrivi a riunire tutti i cristiani in un’unica comunità. Se poi la santa Sede dispone di missionari preparati a questo scopo, pensino i singoli vescovi a chiamarli nelle proprie diocesi o li accolgano ben volentieri, favorendo efficacemente le loro iniziative.
Perché questo zelo missionario fiorisca nei membri della loro patria, è altresì conveniente che le giovani Chiese partecipino quanto prima effettivamente alla missione universale della Chiesa, inviando anch’esse dei missionari a predicare il Vangelo dappertutto nel mondo, anche se soffrono di scarsezza di clero. La comunione con la Chiesa universale raggiungerà in un certo senso la sua perfezione solo quando anch’esse prenderanno parte attiva allo sforzo missionario diretto verso le altre nazioni.

Spunti di riflessione

Domande

Parole che non comprendo

Riflessioni di padre Ottavio durante l’incontro

• L’evangelizzazione non è una catechesi, ma un annuncio di un Dio che ci ama, ci salva e ci porta ad una vita nuova vissuta in comunità, come famiglia.

• Il vangelo si può vivere solo insieme: un filo rischia di spezzarsi, ma se si unisce ad un altro filo, diventa corda.

• Il miglior modo di perdere la fede è non annunciarla.

• Dove non c’è amore, non può esserci annuncio.

• Le nostre scelte non devono essere condizionate dalle difficoltà o dalle situazioni che ci circondano.

• Se mi chiudono una porta, io devo insistere e ribussare.

• Una vita espropriata a servizio degli ultimi: questa deve essere la vita del laico missionario comboniano!

• Nessuno vive di rendita.

Testimonianze

Giuliana da Bologna

Caro padre,
un ragazzo nigeriano di 21 anni, Endurance, approdato suo malgrado in Italia, qualche mese fa chiedeva l’elemosina vicino alla casa di Eileen.
Eileen l’ha avvicinato, si sono parlati e di tanto in tanto lo rivedeva sotto al portico di casa sua.
In dicembre lo porta all’incontro dei laici, lo conosciamo un po’ di più e lo aiutiamo con cibo e denaro per pagare l’affitto della stanza che occupa in un paesino vicino a Modena.
Per un insieme di equivoci e di coincidenze, rimane a dormire dai Comboniani un sabato sera e il sabato successivo, vigilia di Natale, ma senza che ci fosse in noi la premeditazione di scaricarlo sui Comboniani. Una telefonata un po’ piccata di p. Giorgio, mi ha dato l’opportunità di chiarire e nel contempo di attivarmi in prima persona, dopo che era stato accolto al pranzo di Natale da Eileen e festeggiato successivamente il suo compleanno da Micaela e Massimiliano. In quei giorni io avevo la mia truppa da seguire.
Oggi, dopo tante perplessità, alimentate anche da p. Giorgio – il quale dice che i nigeriani sono furbi, ecc. –, lo chiamo per portarlo alla comunità nigeriana che dice messa alla domenica alle 13 nella chiesa di don Nardelli.
Endurance avrebbe dovuto essere in stazione alle 12, io l’avrei preso e portato a Borgo Panigale, ma alle 12.15 arriva una telefonata con la quale mi diceva che sarebbe arrivato alle 13.45. Io mi sono irrigidita e gli ho detto che a quel punto era inutile che venisse. Ma ho avvertito la sua desolazione e gli ho proposto di venire semplicemente a mangiare a casa mia. Vado in stazione, lo carico in macchina e lui cerca di spiegarmi che prende il treno senza biglietto, ma se arriva il controllore, deve scendere e aspettare la corsa successiva. Mi sono vergognata di aver pensato male. È tanto facile pensare male dei poveri! Per un ritardo di un ricco viene spontaneo ipotizzare qualche grave causa importante. Un povero lo si sospetta subito di cialtroneria.
Invece di fermarmi a casa, gli ho proposto di andare ugualmente alla chiesa: avevamo più di un’ora di ritardo. Avrebbe comunque visto il posto e forse avremmo trovato ancora qualcuno. Mentre ci avvicinavamo alla porta della chiesa, ci raggiunge un coro in inglese. Gli si è illuminato il viso mentre diceva: “Oh, in inglese!”. Ho capito quanto quel pezzo di messa ascoltato dalla consacrazione alla fine lo abbia consolato e rinfrancato. Terminata la messa p. Daniel ha invitato all’altare coloro che erano lì per la prima volta, per la presentazione e il saluto, e sono venuti a chiamare anche me che ero rimasta in fondo alla chiesa. Mi è venuto in mente quando p. Leonello in Mozambico chiamò me e Eileen per presentarci alla comunità e lì trovammo Rosineide, suora comboniana, che avevo conosciuto all’Expo un anno prima.
È stato un momento commovente. Ho spiegato il motivo della mia presenza lì in lacrime. Uno alla volta sono venuti a darci la mano: i ragazzi, le famiglie coi bimbi piccoli, i chierichetti maschi e femmine color cioccolato coi vestiti bianchi. Me li sono tutti baciati e abbracciati gustando il sereno che era tornato nel mio cuore.

Suor Lorena dall’Uganda

Vi scrivo dall’Uganda, dall’esilio dove siamo col nostro popolo del Sud Sudan. Le ragioni? La cosa viene da lontano, ma in breve vi dico che prima di Natale c’erano rumori di guerra tra i soldati dell’opposizione al governo (SPLA/IO) e quelli del governo (SPLA). Per circa un mese, abbiamo visto centinaia di persone partire verso il confine con il nord Uganda, dove ci sono diversi campi profughi, camminavano tanti chilometri sotto il sole portando i bambini e il peso dei loro beni. Ci chiedevamo che Natale avremmo vissuto, poi abbiamo celebrato il Natale e il capodanno nella gioia e nello stesso tempo nella gente rimasta percepivamo tensione e paura.
Dopo questi eventi noi suore siamo partite per Nairobi, come previsto, per il ritiro e l’assemblea annuale. Mentre eravamo a Nbi ci è giunta la notizia che in una delle cappelle della parrocchia c’era stato un attacco e sei civili persero la vita, incluso un catechista. Al nostro ritorno da Nbi abbiamo incontrato diversi dei nostri parrocchiani sul confine tra Uganda e Sud Sudan; volti stanchi, sofferti e stressati, ci hanno detto che non si sentivano sicuri là e che tutta la gente stava lasciando l’area. La gente è fuggita con tutti i loro beni, hanno camminato tanto, portato pesi come hanno potuto, dormito qualche notte sui bordi della strada e poi, arrivati al confine, hanno dovuto attendere ancora diverse ore per essere registrati e assegnati dalle Nazioni Unite ad un campo; mi sembravano pecore senza pastore ed è stato molto triste vedere la nostra gente così. Ho visto molti autobus dell’UNHCR che dal confine partivano in continuazione verso i campi con le persone e partivano anche dei camion strapieni con le loro cose: contenitori per l’acqua, materassi, sedie, tavolini, pentole, insomma ciò che la gente possiede.
Dopo il confine abbiamo continuato il viaggio per raggiungere la nostra missione e lungo il cammino ho visto capanne chiuse col lucchetto, villaggi e pozzi vuoti senza donne che raccoglievano l’acqua, cortili senza bimbi che giocavano, non c’erano più i giovani che passeggiavano o che giocavano a football; sulla strada ho visto ancora gente in cammino, andavano via: uomini sudati, con la polvere rossiccia attaccata sul viso e sui vestiti, stanchi e affaticati cercando di trasportare in moto o biciclette stracariche i loro animali, sacchi, scatole, tutto ciò che potevano.
Quella prima notte del nostro ritorno ho sentito tanto silenzio, ho sentito i cani ululare come se piangessero l’assenza dei loro padroni. Al mattino presto non c’erano più galli ad annunciare l’alba. Nel terreno della missione, le persone più vulnerabili attendevano di essere aiutate a raggiungere il confine con i loro beni: donne incinte, persone con disabilità, anziani, ammalati, questi sono stati aiutati in modo speciale. Noi li abbiamo visti e abbiamo parlato con loro, e io pensavo ai poveri di Jahvè, a quel resto del popolo d’Israele che sperava solo in Dio la loro liberazione e la loro salvezza. Una ragazza disabile mi è venuta incontro, mi tirò con forza da un braccio e mi abbracciò, poi mi offrì un pezzo di canna da zucchero, un altro ragazzo con ritardo mentale mi chiamò al suo posto dove era seduto per terra e m’invitò a mangiare un pezzo di patata dolce. Gesti di dolcezza, di accoglienza, di guerra non se ne intendono, e nemmeno di lotte tribali, vivono in maniera spontanea e semplice… e ho chiesto al Signore di rendere il mio cuore semplice come il loro.
Noi missionarie e missionari restiamo con la gente anche in situazioni di pericolo, consci che la nostra vita è già stata donata a Dio. Fare causa comune con i popoli tra cui viviamo è parte importante dell’eredità che Daniele Comboni ci ha lasciato, è profezia all’insegna della povertà e della fratellanza universale, perché per Dio non esistono vite umane più preziose di altre. La nostra gente è partita tutta, nella missione siamo rimasti noi famiglia comboniana senza popolo. La gente ci ha avvertito di andare via anche noi perché in qualsiasi momento si prevede uno scontro armato, ci hanno anche chiesto di non abbandonarli nei campi, di andare a trovarli e pregare con loro. Come équipe pastorale abbiamo chiesto a Dio sapienza, e tra di noi abbiamo dialogato; alla fine abbiamo deciso di partire il lunedì 6 febbraio verso la comunità comboniana più vicina, nel nord Uganda; zona dove ci sono i campi. Vorremmo offrire un servizio pastorale ai nostri parrocchiani e accompagnare questa esperienza di esilio, che è esilio anche per noi.

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