Così Maria Elena definisce l’Albania in questa bella riflessione che condivido con voi.
Siamo partiti lo scorso luglio in nave per Fan, piccolissimo centro nel distretto di Mirditë e appartenente alla diocesi di Rrëshen. Qui c’è una comunità di Suore della Carità di Santa Giovanna Antida Thouret. Con loro abbiamo vissuto, per quindici giorni, una bella esperienza di preghiera e animazione dei bambini che vivono sulle montagne circostanti.
Non aggiungo altro, vi lascio alla lettura delle impressioni, delle immagini e dei sentimenti di questa ragazza, che così bene esprime tutto ciò che abbiamo condiviso.
Teresa
Crepe.
Righe contorte
lacerano estensioni piane.
Fenditure inaspettate sui muri.
Faglie sui pavimenti. Terreni aridi percorsi da fessure increspate.
Tremolii di terra e cemento. Immobili, fissano il cielo.
Ho
visto crepe ondulate che attraversano il mondo.
Erano uomini.
Crepe di carne.
Ogni uomo è un frastaglio che irrompe nel
succedersi in divenire.
Ogni uomo è una crepa che accade.
Accade a sconvolgere il tempo e s’appropria d’un pezzo di
terra entro cui piantare una storia.
Ogni storia racconta una
strada. Ogni strada racconta un Paese. E ogni Paese racconta una
Vita.
È
la Vita che si intravede dallo squarcio nella crepa. Lo squarcio
profondo che attraversa i volti degli uomini che incontri, che ti
lacera lo stomaco e ti rimane aperto dentro.
Ogni crepa dunque
è come una ferita.
Ferita tangibile e viva, pulsante di vene.
Ferita fresca come di ossa spezzate, come di costato impregnato
di sangue.
Ossa,
carne. Sangue e corpo.
Non è una ferita che ha a che fare col
dolore.
È
la ferita della Vita.
Come fosse il taglio cesareo sull’addome
di mia madre.
Sono nata da una ferita aperta sopra il ventre.
Sono rinata dallo squarcio sulla pelle, dentro gli occhi, tra
le mani delle persone che ho incontrato.
Sto
per partire.
Di notte le luci del porto si confondono alle
stelle e l’odore caldo dei fumi della nave si mischia con l’umidità
del mare. La pelle s’impregna di iodio e di vento salmastro.
Comincio ad assorbire l’odore del viaggio.
Un viaggio
che per molti è tornare alla propria terra.
Bari-Durazzo.
Italia-Albania.
Un viaggio che per me è partire altrove.
Altrove da casa. Altrove dal luogo in cui tutto è certezza.
Altrove dalle abitudini.
Altrove da me.
Sulla
nave ascolto voci dall’accento dell’est. Si sentono parole dal
timbro sconosciuto, come fosse una musica che trema.
Non
capisco il significato di ciò che sento ma mi lascio cullare da
questo suono di nenia balcanica.
L’albanese dicono sia una
lingua antica.
Le
navi non partono mai puntuali. Bisogna aspettare che si completino le
operazioni di imbarco.
La stiva si affolla di camion e
autotreni. Si accumulano frastuoni di motori.
Si percepisce
l’ardire di uno slancio verso il progresso d’Occidente. L’Albania
è protesa sull’Adriatico e cerca di tirar fuori da un passato di
dilemmi identitari il suo intrepido impulso mercantile, il suo
giovane spirito europeo.
Aspettiamo
guardando in basso l’acqua buia del porto.
Ci sono uomini
distesi sulle panchine del ponte, passeranno la notte qui fuori, a
farsi levigare la pelle ruvida dal vento. Non hanno abbastanza denaro
per pagarsi una cabina.
Forse attendono l’alba. Essa giungerà
presto a diradare le tenebre e a mostrar loro l’orizzonte, quella
linea labile di speranza da dove sono solite ergersi in lontananza le
montagne di casa.
Gli occhi di questi uomini sono abituati al
mare. Qualcuno ricorda di averlo attraversato su gommoni d’avventura
e di aver proceduto a nuoto nell’ultimo tratto, con il peso dei
pacchi portati da casa, infagottati in misere buste di plastica, in
previsione del naufragio.
Con il peso di un viaggio che era una
fuga. Oppure un tragitto di speranza.
Al tempo in cui l’Italia
era una terra promessa, terra di futuro e di democrazia.
L’Italia
dall’Albania, vent’anni fa.
Adesso,
di notte, qui sul ponte, l’orizzonte non si vede affatto. Non
saranno mica delle mediocri illusioni astronomiche questi orizzonti
abusati dai poeti e ingombrati dall’ammasso dei nostri sogni
futili? I nostri sogni facili. Un po’ romantici. Un po’
superficiali.
Questa notte di nave e di partenze mi svela in
controluce che la vita vera è un’altra cosa. Sta impressa in
queste mani solcate da scelte coraggiose, in questi volti di
corteccia. In questa dignità che non si arrende. In questo orgoglio
di gente umile. In questa perseveranza che non si affida alla
fragilità di una promessa, ma consegna il domani alla cruda audacia
del proprio cuore.
Gli orizzonti non mi erano mai sembrati inutili così come in questa notte di nave, di partenze e di maturità.
Già,
maturità.
Perché tra l’altro l’inizio di questo viaggio
coincide con un compleanno. Il mio.
Salpa
l’ancora e la nave comincia a prendere il largo, lasciandosi alle
spalle il porto e la scia bianca della schiuma.
Mi addormento e
ho un anno in più. E poi ancora un viaggio da affrontare e delle
cose da imparare.
Parto e ho ventun anni.
È bello
invecchiare sul mare.
Su questo tratto di mare Adriatico.
Mare
di Ulisse, di Diomede. Mare degli Argonauti.
Mare di viaggi
mitici ed eterni.
Mare di eroi dal cuore indomito, il cui
pulsare risuona ancora nel ritmo arcaico degli esametri, nell’epico
racconto di un immortale aedo cieco.
Mare di uomini. A volte
clandestini. A volte disperati, a volte disidratati, assetati,
ammucchiati. A volte stanchi, sporchi, disgraziati. A volte morti,
prima d’arrivare.
Era il 1991 ed io non ero ancora nata.
Raccontano di una nave mercantile di ritorno da Cuba, carica di
zucchero. Assalita a Durazzo da una folla di 20.000 persone: migranti
albanesi senza permesso di soggiorno.
Raccontano che
costrinsero il comandante a salpare per l’Italia. Lo sbarco fu ad
agosto, è stato l’esodo in Italia più grande fino ad oggi.
Il
regime comunista era caduto da pochi mesi e l’Albania si scopriva
un Paese improvvisamente più libero ma profondamente povero.
Adesso
attraverso questo stesso mare, come fanno eroi e uomini da secoli.
Ma sono io a sentirmi attraversata dalle loro vite, dalle loro
voci, dalle loro storie.
Domani mattina mi sveglierò in Albania.
È
la terra di fronte.
La terra dominata da invasori millenari e
poi martoriata dal regime. Controllata, soffocata, immiserita.
È
la terra di fronte, sì. Di cui abbiamo sentito dire. Da cui ci siamo
sentiti invasi senza riuscirne a capire i motivi, noi che agli inizi
degli anni ’90 assistevamo al crollo di muri e ideologie e
guardavamo con disprezzo questa gente dell’est che chiedeva
l’elemosina ai semafori.
Noi
non ci eravamo accorti di nulla. E, inconsapevolmente, continuavamo a
danzare sull’orlo di un precipizio, vivendo ad occhi chiusi le
Notti Magiche dei mondiali di calcio: Italia ’90, l’approdo
entusiasmante degli anni del benessere, degli anni che erano stati.
L’Albania intanto rimaneva sempre la terra di fronte che,
nonostante tutto, non aveva smesso di sentirsi Shqipëria, che
significa nido di aquile.
E le aquile si sa, volano.
Sono
arrivata a Durazzo. Un gruppo di bambini romaní mi assale. Sono
scalzi, i denti da latte consunti dalle carie. Si aggrappano al mio
trolley e li trascino per un po’. Una bambina vuole il mio
braccialetto. Provo a staccarlo dal polso ma si impiglia. Intanto mi
dicono che dobbiamo andare, ci aspetta il pullman che ci porterà a
destinazione. Carichiamo le valigie nel portabagagli e saliamo a
bordo. Lei mi guarda mentre continuo a sbrogliare il braccialetto.
Riesco a slegarlo e allungo la mano dal finestrino. Lei lo afferra.
Quasi avidamente. Non ho il tempo neppure di sorriderle perché è
già sparita.
Parte il pullman, la meta è al Nord. Comune di
Fan, distretto di Mirditë. Nel cuore nascosto delle montagne.
Ripenso alla bambina del porto. Aveva gli occhi secchi.
I
bambini del porto fanno tenerezza. Te li vedi tutti intorno ad
allungare i loro polsi magri. Bambine di sei anni portano in braccio
piccoli neonati e si comportano come se fossero già madri.
Ma
i bambini del porto non sanno della tenerezza.
Sono bambini
cresciuti troppo in fretta, conoscono la rabbia molto più della
paura. Conoscono la fatica molto più della tristezza. Non sognano,
non giocano, non sperano. Sopravvivono.
Tra l’indifferenza di
chi passa. Tra il pietismo di chi si ferma. Tra la crudeltà di chi
se ne approfitta.
Mi
ha strappato il braccialetto dalle mani con la prepotenza di un
adulto.
Chissà se qualcuno le ha mai detto ti
voglio bene.
Quale
sarà il futuro dei bambini romaní al porto di Durazzo? Me lo chiedo
ancora adesso.
Mi chiedo se sia vero, che la vita è un insieme
di scelte.
Che tipo di scelta hanno i bambini romaní con gli
occhi secchi che chiedono l’elemosina al porto di Durazzo?
Intanto il pullman ci trasporta dentro l’Albania.
La
strada sale, si riempie di baracche improvvisate, venditori ambulanti
di frutta si alternano agli scheletriti distributori di benzina. Sono
stralci colorati che ricordano ad un tratto i mercati vivaci della
Turchia.
Dall’altra parte si ergono imponenti i cartelloni
pubblicitari della Coca Cola, s’interpongono a mezz’aria tra il
cielo e le montagne.
Residui orientali di un impero e moderni
squarci di globalizzazione si mescolano, si sfidano, si guardano a
distanza in questo paesaggio di salite e di ricostruzione.
Ci
passa accanto l’auto addobbata di una sposa.
I fiocchi
bianchi e i nastri al vento si perdono nell’immagine remota di un
vecchio bazar. Qui si consumano eternamente i festeggiamenti
pittoreschi del matrimonio balcanico, tra le tinte tradizionali delle
danze e il suono acuto della musica.
Mi sento trascinare in un
crocevia melodico di popoli, in questa terra di passaggi
interminabili.
Arriviamo
a Fan, ci accolgono le suore.
Sono donne coraggiose, le suore
di Fan. Abituate al dono gratuito di sé. Lo si legge nei loro occhi
segnati dalla Bellezza dell’incontro. In fondo la loro missione si
riduce a poco, si sintetizza nella voce di un verbo comune. Nella
voce del verbo “essere”, che significa esistere, stare, trovarsi.
Che significa mischiarsi alla vita degli altri compiendo continui ed
immensi atti d’amore. Non è un verbo facile, è il verbo alla base
degli altri verbi, il Verbo ausiliare per eccellenza, quello che
accompagna lungo lo stesso sentiero.
Non hanno scacciato via la
miseria in nome del progresso, non hanno guarito gli uomini dalla
povertà.
Hanno, anzi, imparato dagli abitanti di Fan che si
può dare anche se non si possiede, perché la radice su cui si basa
la vita è quella dell’Essere, non dell’Avere.
Le suore di Fan non hanno paura della solitudine, quella che si prova a volte sulle altitudini del Nord quando arriva il tempo dell’inverno.
Fan
è un villaggio di polvere, arrampicato in mezzo ai monti.
Sospeso
nel suo paesaggio rurale che sembra quello d’altri tempi.
Mi
ricorda una fotografia del dopoguerra, mi ricorda un’Italia mai
vissuta. L’Italia in bianco e nero, patria di quei nonni emigrati
verso l’estero, orgogliosi del sudore che scolava dalla fronte.
Sono
rimasta a Fan per una settimana.
Ho attraversato strade
disfatte.
Ho toccato mani ruvide e umide di terra.
Ho
sentito l’odore acre della povertà, tra gli armenti portati al
pascolo e la pelle ammorbidita dal sudore.
Pelle che sa di
lavoro. Pelle giovane o rugosa. Pelle di montagna.
Ci sono
vecchie che trasportano fasci d’erba compressi tra il fianco ed il
gomito.
Ci sono donne accovacciate sui monti, circondate dal
muggito dei buoi. Dimentiche delle ore, paiono eternamente
avvinghiate alla terra. Come elementi vitali di un paesaggio in
rilievo, se ne stanno pensose ad aspettare il calare del sole.
Sono
ombre esili vestite di scuro, coi capelli davanti raccolti in due
grosse trecce che sporgono sulla fronte.
La testa coperta dal
nero di stoffa che sa d’Oriente. E di passato. Che sa di saggezza
mediterranea e di passaggi di secoli.
Un nero di stoffa che sa
di madre.
I denti usurati dal tempo. E le mani attraversate
dalla storia.
È come se queste donne ci fossero sempre state.
Chine sui monti dal tempo degli indomiti Illiri, chine a
contare i tramonti e ad invecchiare di fatica.
Ho
visto tetti di lamiera e case con i muri di cartone. Bambini scalzi e
stanze dell’est.
Antenne paraboliche in mezzo al nulla, alla
ricerca di un segnale lontano, come fosse la traccia di uno slancio.
Ho visto pentole bollire su fornelli arrugginiti agli angoli dei
cortili. Ho incontrato una bambina che voleva portare il mio zaino in
spalla durante la salita, in cambio mi chiedeva solo di consegnarle
la mia mano. Ho visto mani salutarmi da lontano, mi scorgevano tra il
fumo della spazzatura che si brucia sul ciglio delle strade.
Ogni
viaggio, si sa, implica un ritorno.
Così, dopo aver visto,
incontrato, toccato, ho rifatto le valigie e sono tornata a casa.
Ogni
tanto mi capita di ripensare all’Albania, ai suoi piccoli villaggi
del nord nascosti tra la maestosità delle montagne. Lì farà già
freddo. Ripenso alle persone che ho conosciuto, saranno coperte a
metà, con le scarpe consumate e i buoi da portare al pascolo. Chissà
se nasce qualche bambino, lì tra le montagne di Fan!
Mi fermo
un attimo e resto in silenzio. È come se sentissi il suo pianto.
Immagino che venga al mondo com’è venuto al mondo Cristo, nato tra
la povertà e gli animali della stalla. Partorito nella Gioia umile
di chi non chiede, di chi sorride e non si stanca.
Adesso
è autunno. Le foglie cadono. Ho messo i calzettoni lunghi e ho
tirato fuori dall’armadio la mia giacca di lana. Dal terrazzo di
casa mi fermo a guardare i tramonti delle cinque, i tramonti di
novembre. Sento il vento e penso che l’autunno sa di attesa. Ci si
prepara piano piano per l’Inverno.
Ci si prepara piano piano
per Natale. Per il mistero dell’Incarnazione.
Avete
presente, dunque, le crepe?
Quelle fatte di carne, di occhi, di
mani?
Avete presente gli uomini?
Quella
pelle, quegli occhi, quelle mani raccontano di Cristo.
Ho visto
Cristo dunque.
Incarnato nelle crepe. Nelle ossa, nel sangue,
nei corpi degli uomini incrociati per la strada.
Ho visto
Cristo rannicchiato nelle periferie dove non si guarda. E da dove
invece emerge l’Essenziale.
Allora
non sono più soltanto io.
Sono quella pelle, quegli occhi,
quelle mani.
Sono tornata a casa con un anno in più e con questa consapevolezza.
La Missione in fondo non è salvare il mondo, né pretendere di cambiarlo. A cosa serve? Ho concluso che probabilmente non serve a nulla. E che questa storia che ogni cosa debba servire per qualcos’altro è solo un postulato filosofico adatto alla nostra società dell’utilitarismo razionale.
L’Amore non serve. Perché l’Amore è.
È smettere di cercare Dio dentro se stessi, nelle teorie, nelle astrazioni o nelle parole vane.
Ed è trovarlo inaspettatamente nei passi umili di chi ti cammina accanto, nelle mani che ti toccano e negli occhi silenziosi che ti abitano.
Per un giorno, per una settimana e poi per sempre.