Albania, la terra di fronte

Lecce | 01 Nov 2014

Così Maria Elena definisce l’Albania in questa bella riflessione che condivido con voi.
Siamo partiti lo scorso luglio in nave per Fan, piccolissimo centro nel distretto di Mirditë e appartenente alla diocesi di Rrëshen. Qui c’è una comunità di Suore della Carità di Santa Giovanna Antida Thouret. Con loro abbiamo vissuto, per quindici giorni, una bella esperienza di preghiera e animazione dei bambini che vivono sulle montagne circostanti.
Non aggiungo altro, vi lascio alla lettura delle impressioni, delle immagini e dei sentimenti di questa ragazza, che così bene esprime tutto ciò che abbiamo condiviso.

Teresa

Crepe.
Righe contorte lacerano estensioni piane.
Fenditure inaspettate sui muri. Faglie sui pavimenti. Terreni aridi percorsi da fessure increspate.
Tremolii di terra e cemento. Immobili, fissano il cielo.
Ho visto crepe ondulate che attraversano il mondo.
Erano uomini. Crepe di carne.
Ogni uomo è un frastaglio che irrompe nel succedersi in divenire.
Ogni uomo è una crepa che accade.
Accade a sconvolgere il tempo e s’appropria d’un pezzo di terra entro cui piantare una storia.
Ogni storia racconta una strada. Ogni strada racconta un Paese. E ogni Paese racconta una Vita.

È la Vita che si intravede dallo squarcio nella crepa. Lo squarcio profondo che attraversa i volti degli uomini che incontri, che ti lacera lo stomaco e ti rimane aperto dentro.
Ogni crepa dunque è come una ferita.
Ferita tangibile e viva, pulsante di vene.
Ferita fresca come di ossa spezzate, come di costato impregnato di sangue.

Ossa, carne. Sangue e corpo.
Non è una ferita che ha a che fare col dolore.

È la ferita della Vita.
Come fosse il taglio cesareo sull’addome di mia madre.
Sono nata da una ferita aperta sopra il ventre.
Sono rinata dallo squarcio sulla pelle, dentro gli occhi, tra le mani delle persone che ho incontrato.

Sto per partire.
Di notte le luci del porto si confondono alle stelle e l’odore caldo dei fumi della nave si mischia con l’umidità del mare. La pelle s’impregna di iodio e di vento salmastro.
Comincio ad assorbire l’odore del viaggio.
Un viaggio che per molti è tornare alla propria terra.
Bari-Durazzo. Italia-Albania.
Un viaggio che per me è partire altrove.
Altrove da casa. Altrove dal luogo in cui tutto è certezza.
Altrove dalle abitudini.
Altrove da me.

Sulla nave ascolto voci dall’accento dell’est. Si sentono parole dal timbro sconosciuto, come fosse una musica che trema.
Non capisco il significato di ciò che sento ma mi lascio cullare da questo suono di nenia balcanica.
L’albanese dicono sia una lingua antica.

Le navi non partono mai puntuali. Bisogna aspettare che si completino le operazioni di imbarco.
La stiva si affolla di camion e autotreni. Si accumulano frastuoni di motori.
Si percepisce l’ardire di uno slancio verso il progresso d’Occidente. L’Albania è protesa sull’Adriatico e cerca di tirar fuori da un passato di dilemmi identitari il suo intrepido impulso mercantile, il suo giovane spirito europeo.

Aspettiamo guardando in basso l’acqua buia del porto.
Ci sono uomini distesi sulle panchine del ponte, passeranno la notte qui fuori, a farsi levigare la pelle ruvida dal vento. Non hanno abbastanza denaro per pagarsi una cabina.
Forse attendono l’alba. Essa giungerà presto a diradare le tenebre e a mostrar loro l’orizzonte, quella linea labile di speranza da dove sono solite ergersi in lontananza le montagne di casa.
Gli occhi di questi uomini sono abituati al mare. Qualcuno ricorda di averlo attraversato su gommoni d’avventura e di aver proceduto a nuoto nell’ultimo tratto, con il peso dei pacchi portati da casa, infagottati in misere buste di plastica, in previsione del naufragio.
Con il peso di un viaggio che era una fuga. Oppure un tragitto di speranza.
Al tempo in cui l’Italia era una terra promessa, terra di futuro e di democrazia.
L’Italia dall’Albania, vent’anni fa.

Adesso, di notte, qui sul ponte, l’orizzonte non si vede affatto. Non saranno mica delle mediocri illusioni astronomiche questi orizzonti abusati dai poeti e ingombrati dall’ammasso dei nostri sogni futili? I nostri sogni facili. Un po’ romantici. Un po’ superficiali.
Questa notte di nave e di partenze mi svela in controluce che la vita vera è un’altra cosa. Sta impressa in queste mani solcate da scelte coraggiose, in questi volti di corteccia. In questa dignità che non si arrende. In questo orgoglio di gente umile. In questa perseveranza che non si affida alla fragilità di una promessa, ma consegna il domani alla cruda audacia del proprio cuore.

Gli orizzonti non mi erano mai sembrati inutili così come in questa notte di nave, di partenze e di maturità.

Già, maturità.
Perché tra l’altro l’inizio di questo viaggio coincide con un compleanno. Il mio.

Salpa l’ancora e la nave comincia a prendere il largo, lasciandosi alle spalle il porto e la scia bianca della schiuma.
Mi addormento e ho un anno in più. E poi ancora un viaggio da affrontare e delle cose da imparare.
Parto e ho ventun anni.
È bello invecchiare sul mare.
Su questo tratto di mare Adriatico.
Mare di Ulisse, di Diomede. Mare degli Argonauti.
Mare di viaggi mitici ed eterni.
Mare di eroi dal cuore indomito, il cui pulsare risuona ancora nel ritmo arcaico degli esametri, nell’epico racconto di un immortale aedo cieco.
Mare di uomini. A volte clandestini. A volte disperati, a volte disidratati, assetati, ammucchiati. A volte stanchi, sporchi, disgraziati. A volte morti, prima d’arrivare.
Era il 1991 ed io non ero ancora nata. Raccontano di una nave mercantile di ritorno da Cuba, carica di zucchero. Assalita a Durazzo da una folla di 20.000 persone: migranti albanesi senza permesso di soggiorno.
Raccontano che costrinsero il comandante a salpare per l’Italia. Lo sbarco fu ad agosto, è stato l’esodo in Italia più grande fino ad oggi.
Il regime comunista era caduto da pochi mesi e l’Albania si scopriva un Paese improvvisamente più libero ma profondamente povero.

Adesso attraverso questo stesso mare, come fanno eroi e uomini da secoli.
Ma sono io a sentirmi attraversata dalle loro vite, dalle loro voci, dalle loro storie.

Domani mattina mi sveglierò in Albania.

È la terra di fronte.
La terra dominata da invasori millenari e poi martoriata dal regime. Controllata, soffocata, immiserita.
È la terra di fronte, sì. Di cui abbiamo sentito dire. Da cui ci siamo sentiti invasi senza riuscirne a capire i motivi, noi che agli inizi degli anni ’90 assistevamo al crollo di muri e ideologie e guardavamo con disprezzo questa gente dell’est che chiedeva l’elemosina ai semafori.

Noi non ci eravamo accorti di nulla. E, inconsapevolmente, continuavamo a danzare sull’orlo di un precipizio, vivendo ad occhi chiusi le Notti Magiche dei mondiali di calcio: Italia ’90, l’approdo entusiasmante degli anni del benessere, degli anni che erano stati.
L’Albania intanto rimaneva sempre la terra di fronte che, nonostante tutto, non aveva smesso di sentirsi Shqipëria, che significa nido di aquile.
E le aquile si sa, volano.

Sono arrivata a Durazzo. Un gruppo di bambini romaní mi assale. Sono scalzi, i denti da latte consunti dalle carie. Si aggrappano al mio trolley e li trascino per un po’. Una bambina vuole il mio braccialetto. Provo a staccarlo dal polso ma si impiglia. Intanto mi dicono che dobbiamo andare, ci aspetta il pullman che ci porterà a destinazione. Carichiamo le valigie nel portabagagli e saliamo a bordo. Lei mi guarda mentre continuo a sbrogliare il braccialetto. Riesco a slegarlo e allungo la mano dal finestrino. Lei lo afferra. Quasi avidamente. Non ho il tempo neppure di sorriderle perché è già sparita.
Parte il pullman, la meta è al Nord. Comune di Fan, distretto di Mirditë. Nel cuore nascosto delle montagne.
Ripenso alla bambina del porto. Aveva gli occhi secchi.

I bambini del porto fanno tenerezza. Te li vedi tutti intorno ad allungare i loro polsi magri. Bambine di sei anni portano in braccio piccoli neonati e si comportano come se fossero già madri.
Ma i bambini del porto non sanno della tenerezza.
Sono bambini cresciuti troppo in fretta, conoscono la rabbia molto più della paura. Conoscono la fatica molto più della tristezza. Non sognano, non giocano, non sperano. Sopravvivono.
Tra l’indifferenza di chi passa. Tra il pietismo di chi si ferma. Tra la crudeltà di chi se ne approfitta.

Mi ha strappato il braccialetto dalle mani con la prepotenza di un adulto.
Chissà se qualcuno le ha mai detto ti voglio bene.

Quale sarà il futuro dei bambini romaní al porto di Durazzo? Me lo chiedo ancora adesso.
Mi chiedo se sia vero, che la vita è un insieme di scelte.
Che tipo di scelta hanno i bambini romaní con gli occhi secchi che chiedono l’elemosina al porto di Durazzo?

Intanto il pullman ci trasporta dentro l’Albania.

La strada sale, si riempie di baracche improvvisate, venditori ambulanti di frutta si alternano agli scheletriti distributori di benzina. Sono stralci colorati che ricordano ad un tratto i mercati vivaci della Turchia.
Dall’altra parte si ergono imponenti i cartelloni pubblicitari della Coca Cola, s’interpongono a mezz’aria tra il cielo e le montagne.
Residui orientali di un impero e moderni squarci di globalizzazione si mescolano, si sfidano, si guardano a distanza in questo paesaggio di salite e di ricostruzione.

Ci passa accanto l’auto addobbata di una sposa.
I fiocchi bianchi e i nastri al vento si perdono nell’immagine remota di un vecchio bazar. Qui si consumano eternamente i festeggiamenti pittoreschi del matrimonio balcanico, tra le tinte tradizionali delle danze e il suono acuto della musica.
Mi sento trascinare in un crocevia melodico di popoli, in questa terra di passaggi interminabili.

Arriviamo a Fan, ci accolgono le suore.
Sono donne coraggiose, le suore di Fan. Abituate al dono gratuito di sé. Lo si legge nei loro occhi segnati dalla Bellezza dell’incontro. In fondo la loro missione si riduce a poco, si sintetizza nella voce di un verbo comune. Nella voce del verbo “essere”, che significa esistere, stare, trovarsi. Che significa mischiarsi alla vita degli altri compiendo continui ed immensi atti d’amore. Non è un verbo facile, è il verbo alla base degli altri verbi, il Verbo ausiliare per eccellenza, quello che accompagna lungo lo stesso sentiero.
Non hanno scacciato via la miseria in nome del progresso, non hanno guarito gli uomini dalla povertà.
Hanno, anzi, imparato dagli abitanti di Fan che si può dare anche se non si possiede, perché la radice su cui si basa la vita è quella dell’Essere, non dell’Avere.

Le suore di Fan non hanno paura della solitudine, quella che si prova a volte sulle altitudini del Nord quando arriva il tempo dell’inverno.

Fan è un villaggio di polvere, arrampicato in mezzo ai monti.
Sospeso nel suo paesaggio rurale che sembra quello d’altri tempi.
Mi ricorda una fotografia del dopoguerra, mi ricorda un’Italia mai vissuta. L’Italia in bianco e nero, patria di quei nonni emigrati verso l’estero, orgogliosi del sudore che scolava dalla fronte.

Sono rimasta a Fan per una settimana.
Ho attraversato strade disfatte.
Ho toccato mani ruvide e umide di terra.
Ho sentito l’odore acre della povertà, tra gli armenti portati al pascolo e la pelle ammorbidita dal sudore.
Pelle che sa di lavoro. Pelle giovane o rugosa. Pelle di montagna.
Ci sono vecchie che trasportano fasci d’erba compressi tra il fianco ed il gomito.
Ci sono donne accovacciate sui monti, circondate dal muggito dei buoi. Dimentiche delle ore, paiono eternamente avvinghiate alla terra. Come elementi vitali di un paesaggio in rilievo, se ne stanno pensose ad aspettare il calare del sole.
Sono ombre esili vestite di scuro, coi capelli davanti raccolti in due grosse trecce che sporgono sulla fronte.
La testa coperta dal nero di stoffa che sa d’Oriente. E di passato. Che sa di saggezza mediterranea e di passaggi di secoli.
Un nero di stoffa che sa di madre.
I denti usurati dal tempo. E le mani attraversate dalla storia.
È come se queste donne ci fossero sempre state.
Chine sui monti dal tempo degli indomiti Illiri, chine a contare i tramonti e ad invecchiare di fatica.

Ho visto tetti di lamiera e case con i muri di cartone. Bambini scalzi e stanze dell’est.
Antenne paraboliche in mezzo al nulla, alla ricerca di un segnale lontano, come fosse la traccia di uno slancio. Ho visto pentole bollire su fornelli arrugginiti agli angoli dei cortili. Ho incontrato una bambina che voleva portare il mio zaino in spalla durante la salita, in cambio mi chiedeva solo di consegnarle la mia mano. Ho visto mani salutarmi da lontano, mi scorgevano tra il fumo della spazzatura che si brucia sul ciglio delle strade.

Ogni viaggio, si sa, implica un ritorno.
Così, dopo aver visto, incontrato, toccato, ho rifatto le valigie e sono tornata a casa.

Ogni tanto mi capita di ripensare all’Albania, ai suoi piccoli villaggi del nord nascosti tra la maestosità delle montagne. Lì farà già freddo. Ripenso alle persone che ho conosciuto, saranno coperte a metà, con le scarpe consumate e i buoi da portare al pascolo. Chissà se nasce qualche bambino, lì tra le montagne di Fan!
Mi fermo un attimo e resto in silenzio. È come se sentissi il suo pianto. Immagino che venga al mondo com’è venuto al mondo Cristo, nato tra la povertà e gli animali della stalla. Partorito nella Gioia umile di chi non chiede, di chi sorride e non si stanca.

Adesso è autunno. Le foglie cadono. Ho messo i calzettoni lunghi e ho tirato fuori dall’armadio la mia giacca di lana. Dal terrazzo di casa mi fermo a guardare i tramonti delle cinque, i tramonti di novembre. Sento il vento e penso che l’autunno sa di attesa. Ci si prepara piano piano per l’Inverno.
Ci si prepara piano piano per Natale. Per il mistero dell’Incarnazione.

Avete presente, dunque, le crepe?
Quelle fatte di carne, di occhi, di mani?
Avete presente gli uomini?

Quella pelle, quegli occhi, quelle mani raccontano di Cristo.
Ho visto Cristo dunque.
Incarnato nelle crepe. Nelle ossa, nel sangue, nei corpi degli uomini incrociati per la strada.
Ho visto Cristo rannicchiato nelle periferie dove non si guarda. E da dove invece emerge l’Essenziale.

Allora non sono più soltanto io.
Sono quella pelle, quegli occhi, quelle mani.

Sono tornata a casa con un anno in più e con questa consapevolezza.
La Missione in fondo non è salvare il mondo, né pretendere di cambiarlo. A cosa serve? Ho concluso che probabilmente non serve a nulla. E che questa storia che ogni cosa debba servire per qualcos’altro è solo un postulato filosofico adatto alla nostra società dell’utilitarismo razionale.
L’Amore non serve. Perché l’Amore è.
È smettere di cercare Dio dentro se stessi, nelle teorie, nelle astrazioni o nelle parole vane.
Ed è trovarlo inaspettatamente nei passi umili di chi ti cammina accanto, nelle mani che ti toccano e negli occhi silenziosi che ti abitano.
Per un giorno, per una settimana e poi per sempre.

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